Alcuni riflessi del principio di superiorità dell’interesse del minore nell’istituto dell’adozione

Relazione svolta nell’ambito del programma di autoformazione della Camera Minorile di Lecce.

Lecce 20 febbraio 2003

Alcuni riflessi del principio di superiorità  dell’interesse del minore nell’istituto dell’adozione.

L’istituto giuridico dell’adozione, come la gran parte degli istituti di diritto di famiglia, disciplina una relazione umana carica di significati emotivi ed affettivi.

Il discorso tecnico giuridico non può, pertanto, prescindere da un approfondimento dei contenuti dell’istituto sul piano delle relazioni interpersonali che ne derivano e deve tenere sempre presente il significato più vero in termini di rapporti umani e di relazioni affettive che stanno alla base dell’istituto.

Ritengo che non sia superfluo sottolineare questa considerazione per chi  intende operare in maniera specialistica nel diritto minorile, perché in questo settore specializzarsi significa proprio acquisire una particolare sensibilità ed anche una certa apertura verso altre discipline.

L’adozione è l’istituto mediante il quale si instaura fra l’adottante e l’adottato un rapporto di filiazione legittima, con la conseguente rottura definitiva dei rapporti fra l’adottato e la famiglia di origine.

Non è superfluo, tuttavia, sottolineare che comunemente l’adozione è sentita anche ai giorni nostri come uno strumento per soddisfare il desiderio di maternità e paternità in coppie sterili mentre rimane assolutamente marginale il fenomeno dell’adozione da parte di coppie con figli.

Ora, se è certamente comprensibile che la spinta all’adozione venga data da un bisogno di genitorialità insoddisfatto e da un giustificato desiderio di completamento per una coppia che non può procreare, tuttavia ciò non corrisponde al reale significato dell’istituto dell’adozione sia per il nostro ordinamento giuridico sia nella legislazione internazionale. Significato che sta nella necessità di sottrarre il minore alla situazione di abbandono, inserendolo in un ambiente familiare sostitutivo.

Ed infatti, com’è noto a tutti, le convenzioni internazionali (prima fra tutte la Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo del 20/11/59, riversata poi nella Convenzione sui Diritti del Fanciullo del 1989), ma anche la nostra più recente legislazione nazionale in materia, hanno affermato con grande enfasi la priorità dell’interesse del minore rispetto agli altri interessi coinvolti nell’adozione.

Questa considerazione non deve apparire retorica.

Per quanto il concetto di interesse del minore, come più volte è stato detto, sfugga a precise definizioni tecniche, il fatto di imporre la sua prevalenza rispetto agli altri interessi diventa un indispensabile canone interpretativo ed obbliga l’operatore ad improntare la sua attività al perseguimento di questo e non di altri obiettivi.

Ciò premesso, questo lavoro si propone di individuare i riflessi di questo importante principio sui vari momenti salienti del procedimento di adozione.

 

Residualità – Sussidiarietà

Il primo importante riflesso della proclamata superiorità dell’interesse del minore può essere individuato nell’aver posto a fondamento dell’adozione, tanto nazionale quanto internazionale, il principio di residualità.

La legge 184/83 come novellata dalla L. 149/01 sancisce, proprio nel suo primo articolo, il fondamentale diritto del minore “a crescere ed essere educato nella propria famiglia”.

Le altre scienze quali la psicologia, la pedagogia la medicina ci insegnano che il bambino e l’adolescente necessitano di un complesso di cure, di affetto di attenzioni, di stimoli che egli trova, naturalmente, nel proprio ambiente familiare, che è per natura il luogo più idoneo ad assicurare al bambino una crescita sana ed equilibrata.
Ciò si traduce in un obbligo per lo Stato di fare tutto il possibile perché il diritto del minore a crescere nella famiglia d’origine sia realizzato.

Pertanto, ove sussista una situazione di difficoltà del nucleo familiare, di natura economica ovvero sul piano affettivo/relazionale, in primo luogo le istituzioni (servizi sociali e Tribunale per i Minorenni) devono adoperarsi per sostenere la famiglia mediante provvidenze economiche, o mediante un sostegno socio-psicologico, o nei casi più gravi mediante il temporaneo allontanamento del minore dalla famiglia e la collocazione in una famiglia affidataria, il cui compito è esclusivamente quello di dare al minore l’assistenza di cui ha bisogno preparando e favorendo il reinserimento nel proprio nucleo familiare.

Solo ove sia constatata l’impossibilità di questo reinserimento del minore nella famiglia d’origine, come ipotesi residuale può pensarsi all’inserimento del bambino in una famiglia adottiva, sul presupposto che la rottura del legame biologico ed il conseguente inserimento in un diverso ambiente familiare sia comunque per il minore meno rispondente al suo interesse rispetto alla prospettiva del ricongiungimento con la propria famiglia.

È opportuno sottolineare che questo principio di residualità è stato sancito non soltanto dalla nostra legislazione nazionale sull’adozione, ma anche nella Convenzione dell’Aja sull’Adozione Internazionale del 29 maggio 1993 (ratificata in Italia con la L. 476/1998, e la ritroviamo, pertanto, in tutte le legislazioni interne dei paesi che hanno ratificato la Convenzione, se non espressamente sancita quantomeno operante come principio generale.

Nell’adozione internazionale poi al principio di residualità si aggiunge un secondo importantissimo principio che è quello di sussidiarietà secondo il quale, dopo aver verificato l’impossibilità del reinserimento nella famiglia d’origine, si deve tentare la strada dell’adozione all’interno del paese di origine del minore e solo dopo, come ipotesi appunto sussidiaria, ossia ulteriormente residuale, è possibile autorizzare una adozione internazionale.

Ciò sul presupposto che per il minore sia senz’altro meno traumatico e dunque più rispondente al suo interesse essere accolto da un’altra famiglia nel proprio paese, senza essere sottoposto alla lacerazione che una adozione internazionale inevitabilmente comporta obbligando il minore ad un cambio di lingua, di costumi, di clima, ossia ad un vero sradicamento. Senza contare poi gli immancabili problemi legati all’integrazione, all’accettazione della diversità del minore, all’accettazione da parte dello stesso minore della propria diversità.

Ciò significa che se qualche anno fa era possibile andare all’estero a prendere senza troppe formalità un bambino di cui fosse stata segnalata, dall’amico, dal religioso, dall’intermediario di turno, la situazione di abbandono o anche solo la volontà della famiglia di darlo in adozione, oggi ciò è assolutamente vietato, oltre che penalmente sanzionato, perché nella procedura di adozione internazionale è indispensabile verificare e garantire il rispetto dei principi di residualità e sussidiarietà.

Il compito di assicurare il rispetto di tali principi è affidato, dalla Convenzione dell’Aja alle Autorità Centrali che ciascun paese firmatario ha istituito al suo interno e che hanno funzioni appunto di garanzia, controllo, vigilanza, sensibilizzazione.

Un ruolo fondamentale è poi attribuito agli Enti Autorizzati, cui è affidato in via esclusiva il compito di intermediazione nelle procedure di adozione internazionale fra la coppia aspirante all’adozione ed il paese straniero di provenienza del minore.

A questi organismi la legge 476/98 attribuisce inoltre un importantissimo compito di formazione delle coppie (sul piano socio-psicologico) e di sensibilizzazione alla solidarietà internazionale.

Tanto le autorità centrali che gli EA devono dunque preoccuparsi di sensibilizzare alla cooperazione internazionale ed adoperarsi con progetti concreti di sviluppo in favore dei paesi di provenienza dei minori.

Ciò è stato determinato da una presa di posizione dei paesi più arretrati e che costituiscono tradizionalmente un “serbatoio” di provenienza di bambini a scopo di adozione. Questi hanno preteso, in cambio della disponibilità a continuare ad autorizzare l’espatrio di propri connazionali a scopo di adozione, che i paesi “ricchi” assumessero un serio impegno a collaborare, con programmi di sviluppo e di cooperazione e con progetti mirati in favore dell’infanzia e dell’adolescenza, per favorire il loro progresso socio-economico.

D’altro canto, quanto più un paese cosiddetto “povero” si incammina verso la strada del progresso e della civiltà, tanto meno sarà disposto ad accettare questa specie raffinata e moderna di “tratta” che è l’adozione internazionale.

Tant’è che paesi come il Brasile e l’India oggi sono molto meno propensi a pronunciare adozioni in favore degli stranieri perché ciò equivale ad un marchio, ad un etichetta di paese sottosviluppato, che invece queste nazioni stanno faticosamente cercando di scrollarsi di dosso.

 

La dichiarazione di adottabilità

Un secondo aspetto, in ordine logico e cronologico, del principio di superiorità dell’interesse del minore è quello riguardante la dichiarazione di adottabilità:

L’art. 8 della L. 184/83 recita: “Sono dichiarati in stato di adottabilità […] i minori di cui sia accertata la situazione di abbandono perché privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purché la mancanza di assistenza non sia dovuta a causa di forza maggiore di carattere transitorio”.

Se leggiamo il precetto normativo alla luce del criterio interpretativo dell’interesse del minore ne deriva in primo luogo che il diritto del minore a crescere ed essere allevato nella propria famiglia d’origine può trovare il proprio limite solo e soltanto nel diritto dello stesso minore a vedersi comunque assicurate le condizioni per una crescita sana ed equilibrata.

Pertanto da un lato non può essere eccessivamente enfatizzato il diritto del minore a crescere nella propria famiglia d’origine: ove questa esista ma sia del tutto incapace di dare al ragazzo quel complesso di affetto, stimoli ed attenzioni necessarie a che lui possa sviluppare una propria sana personalità, se dunque la sua famiglia di origine non sia in grado di dare al minore le cure necessarie a farlo crescere sia sul piano materiale che morale, non potrà non riconoscersi lo stato di abbandono con la conseguente pronuncia di adottabilità.

Voglio dire che nel bilanciamento di interessi fra l’orgoglio di una famiglia frustrato dal veder allontanato il proprio figlio e la necessità del minore a trovare le cure indispensabili alla sua crescita, è quest’ultimo che dovrà prevalere.

Naturalmente, l’incapacità della famiglia deve essere grave, ossia tale da non assicurare al bambino una crescita non patologica.

Deve inoltre essere irreversibile, atteso che ove la situazione di difficoltà sia solo temporanea o transitoria al contrario è compito dello Stato tentare in tutti i modi di aiutare la famiglia e di favorire il reinserimento del minore.

Deve infine essere totale nel senso che non debbono esistere nemmeno nella famiglia allargata persone disponibili e capaci di prendersi cura del minore offrendogli una sistemazione adeguata ed idonea ad assicurarne la maturazione.

Bisogna poi ricorrere al solito principio ermeneutico della superiorità dell’interesse del minore anche per interpretare l’articolo 8 laddove afferma  che la dichiarazione di adottabilità può intervenire quando il ragazzo si trovi in “situazione di abbandono moralee materiale”. La congiunzione “e” potrebbe far pensare che queste due condizioni debbano essere sempre entrambe presenti.

Orbene, se è vero che una condizione di indigenza non è di per sé sola sufficiente a giustificare l’allontanamento del minore, quando invece la famiglia possa garantirgli il necessario patrimonio di affetto e attenzione necessario alla sua crescita, non è vero il contrario: ove manchi l’aspetto che il legislatore definisce in senso a-tecnico “morale”, ossia manchi completamente la capacità della famiglia di agevolare il processo evolutivo del ragazzo, l’eventuale esistenza di una condizione economica florida non è sufficiente ad escludere lo stato di abbandono.

[Cfr. un isolato precedente giurisprudenziale – C. A. Palermo 28/0674: esclude la dichiarazione di adottabilità perché ad un bambino rimasto orfano era stata lasciata una cospicua eredità.

Contra Cass. 21/06/88 n. 4220 “esigenza di evitare che al minore manchi quel minimo di cure ed affetto complessivamente inteso indispensabile per una crescita normale ed equilibrata, per cui è sufficiente anche il solo abbandono morale ove di per sé integri una situazione che pregiudichi detta esigenza”].

 

Idoneità

Un terzo aspetto nel quale si può individuare l’attuazione del principio di prevalenza dell’interesse dei minori è quello della idoneità delle coppie aspiranti all’adozione, la cui valutazione richiede una analisi molto seria e profonda.

Nella prassi locale, il Tribunale per i Minorenni incarica i consultori presso le ASL di svolgere le indagini necessarie e di redigere una relazione sulla base della quale poi il Tribunale per i Minorenni, sentita la coppia in Camera di Consiglio, decide in merito alla idoneità.

Dico locale perché l’esperienza delle altre regioni è molto differenziata ed, in molti casi, molto più avanzata della nostra.

Orbene, concretamente le indagini del consultorio si riducono ad una serie di incontri di tono, per così dire, inquisitorio, durante i quali le coppie sono sottoposte ad una molteplicità di domande sulla situazione familiare, sulle motivazioni della coppia ecc.

Questa pressi non elimina il rischio che i coniugi un po’ più smaliziati, magari reduci dall’esperienza di qualche conoscente, riescano a dissimulare, a mostrare una situazione diversa dalla realtà, a celare spinte egoistiche, senza tuttavia maturare nel loro intimo alcuna consapevolezza circa la realtà dell’adozione.

È purtroppo nella nostra esperienza quasi quotidiana il confronto con coppie cui sfugge il vero significato dell’adozione. Essa è, infatti, permettetemi di ripeterlo, lo strumento attraverso il quale si cerca di sottrarre il bambino ad una situazione di abbandono irreversibile, cercando per lui la soluzione migliore, cercandogli, cioè, una famiglia capace di alleviare le sofferenze che egli ha vissuto.

Non dobbiamo dimenticare che, statisticamente, i casi di abbandono dei minori alla nascita sono una percentuale assolutamente trascurabile; bisogna poi ricordare che nella stragrande maggioranza dei casi i bambini dichiarati adottabili provengono da situazioni familiari gravissime e fortemente degradate, nelle quali i bambini hanno spesso subito gravi deprivazioni e maltrattamenti; dobbiamo infine considerare che, per il già detto principio di sussidiarietà, i bambini destinati all’adozione internazionale sono quelli che non hanno trovato un’adozione nel loro paese d’origine, cioè, detto in maniera brutale, quelli che nel loro paese non ha voluto nessuno!

Alla luce di queste considerazioni appare chiaro che un’adozione si fa per colmare il bisogno estremo di aiuto da parte di questi bambini.

La famiglia adottiva dovrà quindi essere caratterizzata da una particolare solidità del rapporto di coppia, da una particolare ricchezza di risorse affettive.

Non guastano, anche se non si possono considerare obbligatorie, specifiche competenze di tipo socio-psicologico.

Ecco perché è fondamentale non soltanto che la coppia sia desiderosa di accogliere un figlio adottivo, ma anche che sia in grado di dargli quella particolare comprensione che un bambino con un vissuto di abbandono richiede.

Anche perché, il rischio del fallimento adottivo, cioè che il bambino, dopo essere stato affidato ad una coppia, venga da questa rifiutato e nuovamente abbandonato si ripercuote in maniera drammatica ed inaccettabile sul minore. E ciò risulta ancora più grave nel caso di adozione internazionale.

Ecco perché la valutazione della coppia deve essere  fatta con particolare attenzione nella fase preliminare, ma dovrebbe, a mio avviso, esser preceduta da una seria formazione ed informazione della coppia prima di tutto circa la realtà dell’adozione, molto spesso completamente ignorata da chi vi si avvicina magari dopo una serie di tentativi falliti di fecondazione assistita. Lo spirito è completamente diverso. Nel caso dell’adozione si tratta di accogliere un essere umano, una persona, che ha già una sua storia, un suo vissuto spesso difficile e che va rispettata nella sua identità.

La formazione deve quindi mirare a far maturare nella coppia un’apertura profonda, a creare uno “spazio interno” di accettazione, accoglienza e amore verso il figlio adottivo.

Il percorso di formazione va poi modellato in relazione alla situazione concreta, ed alle specifiche esigenze del minore cui la coppia è stata abbinata.

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Author

Avv. Rita Perchiazzi

Avv. Rita Perchiazzi

L'Avvocato Rita Perchiazzi è iscritta all'Albo dell'Ordine degli Avvocati di Lecce dal 23 luglio 1997,Ha studio in Lecce. Si è perfezionata in Diritto Minorile e si occupa prevalentemente di questioni concernenti le persone, la famiglia, la filiazione e l'adozione. Si occupa altresì di diritto del lavoro, con particolare riferimento alle problematiche del mobbing e della tutela antidiscriminatoria dei lavoratori e delle lavoratrici. Da aprile 2019 è Consigliera dell'Ordine degli Avvocati di Lecce. Nel Consiglio riveste il ruolo di coordinatrice dell'Osservatorio Famiglia e Minori, di componente della Commissione Patrocinio a spese dello Stato, dell'Osservatorio civile e di numerose altre commissioni. Da aprile 2016 ad aprile 2019 è stata Presidente dell'Unione Nazionale Camere Minorili, associazione maggiormente rappresentativa e specialistica di diritto minorile e di famiglia. E' stata a lungo Presidente della Camera Minorile di Lecce e continua tuttora a far parte del direttivo. Svolge frequentemente incarichi di curatore speciale del minore. E' iscritta negli elenchi dei difensori disponibili al patrocinio a spese dello Stato.

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